Seleziona una pagina

Finanziamento all’editoria. Riformatelo, ma non abolitelo

16 Feb 2015 | Opinioni

Finanziamento pubblico all’editoria e relativi “tagli” sono temi che si prestano a incassare il consenso di una popolazione ormai esausta e cronicamente arrabbiata, facile preda di abili capipopolo. Eppure l’argomento andrebbe affrontato con delicatezza, senso di responsabilità e opportune distinzioni.
Lo dichiaro subito: sono favorevole al mantenimento di una forma di contribuzione alla stampa purché le attuali regole vengano riviste per evitare abusi e furbizie. E purché la riforma avvenga in modo graduale, per dare alle aziende il tempo di organizzarsi limitando l’impatto sui posti di lavoro: giornalisti, grafici, tipografici, distribuzione e aziende fornitrici. Molte persone sono disposti ad accettare contributi e assistenzialismo per tutti i settori (agricoltura, turismo, edile… passando per finanziamenti alle start-up) però si oppongono a quelli per l’editoria. Solo a quelli. Questo è un fatto che dovrebbe preoccupare.

I contributi all’editoria sono erogati anche da altri stati occidentali. Questo per sottolineare che, se il metodo italiano è sicuramente discutibile, il principio è sacrosanto: garantire l’esistenza di una sana, e democratica, pluralità di voci.
I contributi (Legge 7 agosto 1990, n. 250) sono diretti a testate giornalistiche edite da enti morali, fondazioni e imprese senza fine di lucro, cioè che non dividono gli utili. E, tanto per sfatare una vulgata ricorrente, i grandi giornali privati non ne hanno diritto. Questi sono gli elenchi che lo dimostrano.

In realtà è chiaro a tutti che i detrattori di questa legge agitano la bandiera del “magna-magna” per colpire i giornalisti. Il calo di qualità del giornalismo italiano (questo è un altro tema, che non dipende dai contributi pubblici) non è un motivo valido per chiudere i giornali. Anzi, al contrario: la schiena dei giornalisti si drizza nella stabilità del posto di lavoro e potendo contare sulla capacità del giornale di reggere l’urto di immancabili querele e altre antipatiche reazioni del potente di turno.

Il senso della legge è quello di permettere a quante più voci possibili di esprimersi, libere dal ricatto dei grandi poteri che investono ingenti somme pubblicitarie e che, per questo, possono condizionare gli editori o costringerli alla chiusura.
I detrattori, invece, si dicono convinti che il finanziamento assoggetti la stampa ai partiti, poiché sono questi ultimi che decidono i finanziamenti. Questa è una corbelleria frutto della superficialità che accompagna, purtroppo, le nuove leve delle politica italiana. I contributi vengono assegnati secondo una serie di criteri oggettivi definiti dalla legge. Per capire meglio come funziona, questo è un articolo scritto in modo molto chiaro.

La politica, attraverso il governo, decide l’ammontare complessivo dei contributi, anno per anno, ma non può aggirare i parametri di assegnazione, anche perché le erogazioni sono pubblicate. Certo, di questo sistema ne hanno beneficiato anche le cosiddette testate di partito. E questo, pur essendo comprensibile nelle intenzioni (si può fondare un partito senza avere i soldi e le Tv di Berlusconi), non contribuisce certo alla popolarità del provvedimento.

Quello che proprio non va è un “effetto collaterale” di questo sistema: le aziende non sono incentivate a crescere perché possono contare sui soldi di Pantalone.
E allora, cosa si potrebbe fare per cambiare l’acqua del bagnetto senza gettare anche il bambino?
Innanzitutto si potrebbe chiudere l’erogazione del finanziamento alle testate che afferiscono a partiti rappresentati in Parlamento o ad associazioni e fondazioni di deputati, dato che essi ricevono rimborsi elettorali e stipendi consistenti.

Poi si potrebbe trasformare il finanziamento in un fondo di start-up dedicato a nuove imprese editoriali, carta o web che siano, premiando maggiormente criteri quali la multimedialità, l’età media, il numero di ore di formazione veramente qualificata, l’informazione locale.
In questo modo si stimolerebbero nuove attività, occupazione, indotto.
I tanti giornalisti precari o disoccupati potrebbero smettere di lamentarsi sui social network e costituire piccole o grandi cooperative editoriali, contando su un aiuto che, però, dovrebbe avere una limitazione temporale, in funzione di un accurato business-plan. I fondi potrebbero essere ridotti progressivamente, fino al punto in cui solo nuovi investimenti dell’azienda potranno meritare altri sostegni, ad esempio sotto forma di sgravi fiscali.

Così facendo si valorizzerebbe una spesa pubblica a beneficio della libertà di informazione e, allo stesso tempo, si eviterebbe di favorire, con l’assistenzialismo statale, imprese a scapito di altre che, invece, lottano sul mercato senza aiuti.

Massimo Max Calvi

 

 

Altri articoli in:

0 commenti