“Sono giovane e non ho tempo di leggere”, è una frase che ho sentito di recente e che mi ha spinto a riflettere.
Ciascuno di noi trascorre una discreta mole di tempo facendo cose non produttive: i dati del 2024 da WeAreSocial/Meltwater rivelano che trascorriamo mediamente 3 ore al giorno fruendo contenuti televisivi (broadcast e streaming) e oltre 90 minuti sui social media.
Allora, come si spiega questa percezione di non avere tempo, specialmente tra i giovani che hanno tutta la vita davanti?
Un caro amico, manager di successo e grande pescatore, mio sodale in un esclusivo cenacolo chiamato “Repubblica”, una volta mi disse: “Caro Max, siamo le palline del flipper e dobbiamo continuare a rimbalzare finché qualcuno inserisce monete”.
Il disagio della normalità
L’immagine coniata dal mio amico mi ha ricordato il “disagio della normalità”, un concetto che descrive «l’intreccio armonico ed esasperato di influenze conformistiche e consumistiche che ha dato vita a una certa passività» (Centrone, Formella, 2019).
Il flipper non è governato da noi. È una illusione, quella che porterà qualcuno a pensare “non mi riguarda”, perché avere le dita su un piccolo ed effimero flipper personale non ci esime da essere palline in un flipper di qualcun altro.
Nell’Onlife (Floridi, 2014) ci sono gli algoritmi, che ci vedono come palline in movimento all’interno di un gigantesco funnel di marketing, mirato a massimizzare l’iperconsumo e la produzione, alla faccia della sostenibilità. La pallina rimbalza fino al momento in cui finisce nel buco, poi torna su e viene di nuovo lanciata nel gioco. E poi ci sono sistemi (economici, politici, ecc.) che si autoalimentano. Si potrebbero considerare come i programmi che governano il flipper stesso.
Nel nostro mondo iperconnesso, rimanere in gioco è visto come un badge d’onore, una prova tangibile di ambizione e impegno. Un continuo rimbalzare mentre il tempo passa e si riduce, ogni giorno di più.
Questo vale tanto per i giovani quanto per i “senior”, che statisticamente hanno meno tempo da vivere. È curioso come molti di loro si ribellino a questa carenza fisiologica di tempo, mantenendo un calendario saturo di impegni e cercando di tenere le redini del potere pur sapendo che tutto finirà comunque. Perché? Forse perché trovano nel lavoro una ragione di essere che manca altrove?
La risposta forse arriverà negli ultimi istanti, quando il tempo sarà scaduto e ciascuno di noi, nei pensieri prima del blackout, farà un bilancio.
La chiave è sempre la stessa: consapevolezza. Dobbiamo essere consapevoli del tempo che brucia, della quantità di vita che dedichiamo occupandoci delle cose importanti solo per il flipper. Dobbiamo imparare a dire “no” quando sentiamo quella brutta e nociva dissonanza interiore (Festinger, 1957). Prima che faccia sera.

0 commenti